00 05/09/2009 10:03
Scritto come un romanzo inglese di formazione fra Daniel Defoe e Laurence Sterne, il bel libro di Pierluigi Panza, La croce e la sfinge, edito da Bompiani, traduce in racconto, studiato e avventuroso, la vita scellerata del grande artista, architetto e (soprattutto) visionario incisore, Giovanni Battista Piranesi. Un grande saggio, nel gusto di un certo Longhi, quello della lettera da Pommer Stelden, scrittore dichiarato e per di più in lingua settecentesca (a questo ancora Panza non è arrivato) e del Neri Pozza delle belle vite dei grandi pittori veneziani. Così un saggio preciso, ben argomentato, di solido fondamento filologico, può farsi passare per romanzo e attraversare le forche caudine del Premio Campiello, sotto l’occhio attento di una giuria popolare che «non vuole storie»: vuole storie.
D’altra parte Panza si presenta con la perfetta epigrafe del suo precursore, Gian Lodovico Bianconi: «Chi potesse scrivere con libertà, e decenza la vita tumultuosa di Gian Battista Piranesi non meno gustoso, né meno ghiotto di quello che di se stesso scrisse il famoso Benvenuto Cellini». Appassionandosi alla materia e al personaggio, il giornalista-studioso che si combatte nella penna di Pierluigi Panza, meditando agli alti esempi di Pietro Citati e di Marc Fumaroli, si muove seguendo questa traccia: «La sua (di Piranesi) era una rivolta: voleva sposare arte e libertà. Una pazzia».
Così il libro ha il suo epicentro nella contrapposizione tra due straordinari talenti contemporanei, e ancora tali a intenderne la lezione. Da una parte il testimone dell’ordine e della ragione, Giovanni Gioacchino Winckelmann, dall’altra il testimone del disordine e dell’avventura, il Piranesi, nell’eterna contrapposizione di apollineo e dionisiaco. Sotto la protezione di Papa Clemente XIII, veneto come Piranesi, al Nostro non poteva toccare miglior sorte che lavorare per la nuova abside di San Giovanni in Laterano, continuando l’opera del suo ideale e ammiratissimo precursore, il Borromino, l’architetto sulle cui orme Piranesi era arrivato a Roma. Un concorrente, Luigi Vanvitelli, scrisse: «Se faranno fare qualche fabbrica al Piranesi, si vedrà cosa puol produrre la testa di un matto, che non ha verun fondamento. Né ci vuole un pazzo per terminare la tribuna di San Giovanni in Laterano, benché il Borromino, che ristaurò la chiesa, non fosse uomo molto savio».
Raccontando questa storia di capricci e di competizioni, di divisioni e di difficile realtà, Panza dedica la sua attenzione all’opera che finalmente, dopo le difficoltà e le esagerazioni del progetto San Giovanni in Laterano, Piranesi riuscì a realizzare: la più originale chiesa di Roma pur nella apparente compostezza delle linee, la chiesa di Santa Maria del Priorato sull’Aventino, dove la Roma antica e l’Oriente convivono in una sintesi moderna e dove la ragione è la simbologia egizia esoterica e la fantasia l’ordine apparente della civiltà greca. Panza osserva: «Le sfingi d’Egitto si sommavano così alle colonnette di alabastro provenienti dalla Terrasanta, ritrovate nel sottosuolo e utilizzate come elementi di quel rebus che era la sua chiesa. Le fece scolpire in facciata per manifestare la sua passione per gli egizi da opporre ai greci». Per non appesantire il racconto Panza offre soluzione a quei rebus in una preziosa appendice, «misteri di pietra» che dà la «spiegazione dei simboli della chiesa di Santa Maria del Priorato».
www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=380054