Il taricheuta era un altro dei pochissimi operatori cui era concesso toccare il cadavere.
In egizio si diceva hery-sesheta = “preposto ai misteri”.
Egli interveniva quando il lavoro più sgradevole era terminato, ma non per effettuare parte del lavoro di ricomposizione, anche questo affidato ai khetemu-netjer, ma per supervisionarne il lavoro, eseguendo poche unzioni, alla testa e alle labbra.
Nel fare ciò indossava la maschera di Anubi, dunque impersonava il ruolo della divinità nel rito, assumendone i compiti liturgici.
(fonte: Federico Bottigliengo, in
A.A. V.V. Ur Sunu, catalogo della mostra di Casale Monferrato (AL), 2008)
Nel procedimento di imbalsamazione possiamo ravvisare, oltre alla depurazione fisica dalle parti facilmente deteriorabili di un corpo, un analogo processo di purificazione ideale, per cui dopo l’intervento degli incisori si riteneva opportuno effettuare una “chiusura”, supportata dall’intervento magico del taricheuta, che preludesse alla nuova apertura, quella più solenne e del tutto virtuale, effettuata dall’erede al trono o dal suo rappresentante, detto rito dell’apertura della bocca.