N 186 di Oasis - rivista di cultura ambientale

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emilioraffaele
00lunedì 8 marzo 2010 15:17

Integro il recente post di Egizia72 riguardo ai siti archeologici del Sudan ed alle e Piramdi di Meroe, stralciando e riassumendo un articolo pubblicato nell'ultimo numero della rivista di cultura ambientale Oasis: 

Tempio di Musawwarrat: “Quest'area è considerata dagli archeologi una delle più misteriose di tutto il Sudan, in quanto mancano ancora molti tasselli al mosaico della sua ricostruzione storica. Il tempio è il più grande del paese, considerando il muro perimetrale di circa 600 metri. A poca distanza dal grande edificio sacro, ne sorge un altro, più raccolto, detto tempio del Leone e dedicato al dio Apedemak, affiancato al culto del dio Amon.

Questa struttura del 250 a.C. è considerata un esempio tipico del periodo Meroitico. Grande fascino è racchiuso nell'area della Necropoli reale di Meroe, tra la V e VI cataratta del Nilo; questo luogo vanta la maggior concentrazione di piramidi di tutto il mondo. Sono più di 40 e spuntano dalle dune come fossero campanili. Non sono paragonabili a nessun'altra struttura piramidale già vista precedentemente. Molte sono prive della parte superiore, altre hanno gli spigoli segnati da sottili cornici, altre ancora conservano, più o meno ricostruito, il caratteristico portale di derivazione egiziana, che indica il punto di accesso alla tomba sotterranea. Infatti il particolare profilo di queste piramidi è caratterizzato da un piccolo tempio decorato con iscrizioni e bassorilievi e per la presenza di tre camere sotterranee.

Molta attenzione è data alla misteriosa piramide n. 6, che i geroglifici sulla parete indicano come tomba della regina Amanishaketo, definita dall'aspetto virile e orba di un occhio. Il grande impero nubiano, a quel tempo uno dei più vasti imperi africani, riconosceva la completa parità di diritti tra i regnanti dei due sessi, tanto che fu governato indifferentemente da re e regine, rispettando discendenze stabilite su base matriarcale. La storia di Amanishakheto è il simbolo di questa eccezionalità. La storia che i bassorilievi testimoniano, racconta che la monarca si trasformava all'occorrenza in una pericolosa guerriera, tanto da spingersi fino in Egitto, scatenando così la reazione dell'Imperatore Augusto.

La piramide n. 6 fu, come molte altre, rasa al suolo e depredata da medico e avventuriero italiano Giuseppe Ferlini (!!??) che nel 1834 dichiarò di aver rinvenuto l'intero tesoro della sovrana che oggi si trova ai musei di Monaco e Berlino. Nonostante ciò lo stato di conservazione di questo sito, scarsamente frequentato, è sorprendente, a dispetto della scarsa tutela, dei numerosi restauri di dubbia qualità e delle profanazioni in tempi relativamente recenti.”

 

Ho fatto una veloce ricerca sul web per individuare la zona ed ho scoperto che effettivamente ci sono molti Tour Operator (Es.: http://www.inognidove.it/viaggilevi-sudan/), che organizzano con una certa periodicità, diverse escursioni nella zona, il che può confortare sulla sicurezza fisica del viaggiatore occidentale. Purtroppo, io - che con l'età non so più rinunciare a certe comodità -  ho approfittato per fare una giretto virtuale della zona interessata ed i luoghi sono fantastici. Anche questo è Egitto antico.

 

A proposito di Ferlini, di italiani in giro per l'Africa a quei tempi ce n'erano parecchi e la loro storia assomiglia spesso, ad un vero  romanzo.(da: http://www.ilcornodafrica.it/pca-ferlini.htm):

 

Walter Boldrini, discendente e biografo del Ferlini, di cui ha curato con amore filiale la pubblicazione delle memorie inedite, specifica che il periodo trascorso a Khartum fu il “più felice e fortunato” per “la benevolenza del Governatore (Crusut Bey) guadagnata con l’onestà professionale. (...) E man mano che entrava in maggiore dimestichezza con il Crusut Bey, prossimo a diventare Pascià, maturava in lui un’idea strana: di cercare nel territorio dell’antica Meroe qualche importante reperto archeologico o magari nascosti tesori’’. Dal Pascià ottenne, non senza qualche difficoltà, l’autorizzazione ad eseguire gli scavi. Non appena giunse dal Cairo un medico con il compito di sostituirlo, il Ferlini si associò con l’amico albanese Antonio Stefani, esperto conoscitore della Nubia, che si occupò dell’acquisto dei dromedari e del reclutamento degli indigeni. La spedizione partì l’11 agosto 1834. Il Ferlini e lo Stefani si portarono dietro anche le loro famiglie. In un primo tempo si indirizzarono ad un tempio posto nel deserto detto Galla-Volet-Mamut, a otto ore di cammino dal Nilo. Ferlini era rimasto ammirato dai geroglifici esterni. Fu costruito un recinto spinoso per difendersi dai leoni che circolavano in quantità elevata in quelle terre deserte. Il giorno dopo si incominciò a disseppellirlo dalla sabbia che ne ricopriva la base, ma si cercò inutilmente l’ingresso. Si pensò allora di aprirlo dalla parte superiore. Il lavoro durò venti giorni, sotto un sole massacrante, senza che tanta fatica avesse un riscontro positivo. A malincuore si dovette abbandonare l’impresa. Ugual sorte toccò con un altro tempio, situato a Volet-Hassan, più vicino del precedente al Nilo. Alla fine l’attenzione si polarizzò unicamente sulle piramidi di Meroe. Si presero d’assalto alcune piccole piramidi che vennero demolite, ancora una volta con scarsi risultati: si rinvennero oggetti di poco valore e i resti di molti defunti. Non deve stupire il fatto che il Ferlini, nel tentativo di portate alla luce qualche pezzo di pregio, rovinasse irrimediabilmente con il piccone delle costruzioni di civiltà scomparse. L’Archeologia era una scienza nuova e Ferlini, come tanti altri suoi contemporanei, era un esploratore/archeologo autodidatta. Se si considera che fino a pochi anni prima le mummie egizie venivano vendute nei mercati europei ai farmacisti che le rendevano in polvere per la preparazione di chissà quali medicinali, i sistemi del medico bolognese erano più che legittimi in relazione agli scarsi mezzi di cui disponeva. In ogni caso questi scavi stavano costando molto denaro. Ferlini pagava e sfamava alcune centinaia di indigeni, di cui del resto non si fidava. Era convinto che, nel caso avesse trovato qualche pezzo di valore, lo avrebbero assalito per ucciderlo con le loro lance. Con preveggenza “l’Albanese ed io metà della notte per ciascheduno vegliavamo per sospetto de’ servi poco fedeli, e de’ Neri avari, e crudeli’’. Ferlini si augurava di avere un colpo di fortuna, altrimenti sarebbe dovoto tornare al più presto a Khartum a mani vuote. All’ultimo decise di dare l’attacco alla piramide più grande, la stessa descritta dal Cailliaud, che l’aveva scoperta. Questa piramide era alta ventotto metri ed era formata da sessantaquattro gradinate, mentre ogni lato aveva una lunghezza di quarantadue metri. Si iniziò a demolire la cima, in parte già cadente. Mentre il termometro segnava 48 gradi, il Ferlini e lo Stefani si riposavano all’ombra della piramide. Ad un tratto un servo li chiamò: si era scoperto un pertugio! Tolti dei macigni, si mostrò una cella. Questa conteneva una bara vuota, coperta da un drappo di cotone che con l’aria andò in polvere. Intorno, in perfetto ordine, c’erano talismani, idoli, collane, anelli, braccialetti, ecc. Erano oggetti d’oro e d’argento con cammei ed altre pietre preziose, il tutto finemente lavorato. La costanza del Ferlini era stata premiata, il tesoro era una realtà! Ora il problema era quello di portarlo via, in Europa, per venderlo al miglior offerente. Ferlini racconta che “raccolto tutto ciò che trovai, lo posi entro a sacchetti di pelle, e pel tal modo nascosi agli Arabi l’oro. Discesi al piede della piramide, costoro ci si strinsero in cerchio, ansiosi di vedere le cose trovate. Ma io coll’armi alla mano, e con la faccia fiera comandai loro di salire, e proseguire il lavoro, ed essi perché credono che l’arma da fuoco col solo presentarla uccida, in un baleno si ricondussero al travaglio”. I due amici pensarono che per salvare loro stessi, le famiglie e il tesoro non rimanesse altra alternativa che la fuga. Alcuni giorni dopo, mentre i nubiani dormivano, il gruppo partì con i dromedari. Raggiunto il Nilo, ripresero il viaggio su una barca che li attendeva. Seguirono la corrente e dopo tre giorni di navigazione giunsero a Berber, dove risiedeva il vicegovernatore. Questi fornì i mezzi per attraversare il “deserto di Crusca, detto da Neri il Mare senz’acqua”. Altri dieci giorni trascorsero prima di arrivare nella Valle del Nilo, fra la prima e la seconda cateratta. Ormai le difficoltà stavano terminando, la strada per il Cairo era relativamente facile. Nel giugno 1835 Ferlini prese la nave per tornare in patria (erano con lui lo Stefani, Kadrah e cinque sudanesi).: Sbarcò a Trieste in settembre, dopo avervi sostato a lungo per la quarantena. Finalmente poté riabbracciare la sua città natale. L’avventura africana era finita. L’avvocato Carlo Pancaldi, studioso bolognese, nel 1836 pubblicò l’opuscolo Cenni di cose etiop-egizie, interamente dedicato alla scoperta del tesoro di Meroe. Incoraggiato dall’ottima accoglienza che la stampa e l’ambiente scientifico aveva rivolto all’opera del Pancaldi, anche il Ferlini nel 1837 pubblicava un suo libretto di grande formato intitolato Scavi nella Nubia ed oggetti trovati contenente la relazione delle sue avventure e il catalogo completo dei 155 pezzi di cui era proprietario. L’opuscolo era provvisto di una bella tavola litografica con raffigurati la piramide e ventun oggetti preziosi. (Naturalmente una delle prime copie la donò “All’Ill.mo Sig. Av.to Carlo Pancaldi”, come attesta la dedica autografa posta sulla copertina dell’opuscolo che, dopo tanti passaggi di mano, è finito nel mio Archivio Storico). Nel 1838 usciva da una tipografia romana un altro suo lavoro, la Relazione intorno alla Geografia e Statistica di alcune parti dell’Affrica (soltanto negli ultimi anni del XIX secolo si incominciò a scrivere Africa con una sola effe), dove aveva descritto le strade e le difficoltà dei suo viaggi. Parte del tesoro venne acquistata dal re Luigi di Baviera, nel 1839 in incognito a Roma, che volle i braccialetti, gli anelli e due vasetti di bronzo. Ciò che restava fu portato in Inghilterra, e fu in questo periodo che se ne interessò Mazzini. Infine nel 1843 il tesoro approdò al Museo di Berlino “ma Ferlini - come ha scritto il Boldrini - non ne ricaverà nulla: egli dice “a causa di un fallimento successo in Prussia”, ma non ne conosciamo il minimo particolare”. Del tesoro di Meroe rimangono i facsimili della collezione completa donati nel 1861 al Museo Egizio di Torino; alcuni gioielli si trovano nei Musei Egizi di Berlino e Monaco, di tutto il restosi è persa la traccia.

 

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