Ancora sul problema del termine.
Torno seria.
Al momento dell’origine del linguaggio e in particolare quando l’uomo inventò il termine “nefer”, certamente più antico del nostro ”bello” e “buono”, evidentemente non si faceva ancora distinzione fra ciò che era bello e ciò che era buono.
Dal punto di vista dell’esperienza sensoriale è giusto che sia così, infatti i sensi si sono sviluppati per far capire all’animale se una cosa era buona o cattiva: ad esempio la ciliegia ha un aspetto attraente, infatti è buona, piace, fa anche bene, è giusto che l’uomo ne mangi per la sua salute, invece le foglie di cipresso sono amare, cattive e maleodoranti, meglio non mangiarne infatti sono velenose.
Questo in linea di principio, naturalmente anche l’esperienza e la memoria aiutano molto!
Comunque in quel momento dell’evoluzione umana, non potendo l’individuo contare ancora sulla grande sapienza che verrà, poteva farsi bastare il giudizio “estetico” (se una cosa era bella), perché il metro di giudizio, non ancora complicato da tante speculazioni, generalmente era sufficiente per classificare gli oggetti delle necessità.
Nel caso del termine “nefer”, visto che esso rappresenta, come abbiamo detto qualche messaggio più sopra, frattaglie, risulta molto difficile trovare il legame tra la bellezza e l’oggetto indicato dal segno.
Forse è uno di quei casi in cui, come già detto a proposito del sandalo – vita – ankh, è stata solo l’assonanza dei termini usati nella lingua orale a far passare in quella scritta un solo segno per un suono simile con due significati.
In altre parole quell’insieme cuore – trachea (sarebbe da indagare perché questo insieme), detto “nfr” nella lingua parlata, suonava molto simile ad un altro modo di dire “nfr”, coniato molto più tardi giacché le parole indicanti concetti astratti sono più recenti rispetto a quelle indicanti oggetti tangibili, e quindi come si disegnava il segno per il primo, così si continuò a disegnarlo anche per il secondo.
Sarebbe opportuno chiedere a qualche esperto di lingue antiche se ci sono altre popolazioni che usavano inizialmente un aggettivo unico per indicare le due qualità come abbiamo visto nel caso dell’Egitto; sarebbe anche divertente fare una ricerca sulla strada dell’etimo, a ritroso delle parole bello e buono in tutte le lingue, vive e morte.
Se qualcuno mi può aiutare naturalmente gliene sarei molto grata perché non ne so nulla.
Solo dopo, con l’evoluzione della cultura e la nascita di pensieri più sofisticati, l’uomo ha inteso che il “bello” e il “buono” sono due qualità non coincidenti, e anzi, che la bellezza a volte nasconde la malvagità, piuttosto che palesare la bontà.
In uno dei nomi di re Tut abbiamo traccia della coscienza della differenza: il toro possente è bello di aspetto.
Non è certo il primo esempio manifesto, ma adesso non me ne vengono in mente altri più antichi, dovrei fare una ricerca specifica, ma serve solo a dare forma al problema: ad un certo punto della sua storia, l’uomo sente dunque la necessità di dividere ciò che è solo bello senza essere buono e ciò che è solo buono senza essere anche bello.
Così ricorre a perifrasi e poi ad un termine specifico.
In un primo tempo, come testimonia il titolo di Tut che ho citato, la bontà, ma anche la bellezza rimangono comunque entrambe prerogative della divinità, anche perché proprio per definizione il Re – Dio è il “Nefer Netjer”, racchiudendo in sé ogni definizione positiva.
E’ un po’ come dire che se una cosa è buona deve anche essere bella, attraente ai sensi, mentre se una cosa è bella non necessariamente si rivela anche buona.
Chissà quale esperienza ha fatto maturare la distinzione, forse una donna?
Tutto ciò avvenne a livello inconscio, senza una vera presa di coscienza del dilemma, che invece verrà studiato molto più a fondo durante il Medioevo e dopo.
Che ne dite?