La fauna dell'antico Egitto al Museo Rietberg di Zurigo

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EGIZIA72
00lunedì 25 ottobre 2010 12:51
Il Museo Rietberg si trova immerso in uno splendido parco adagiato sulle dolci colline di Zurigo. Attraversarlo anche in una giornata uggiosa d'autunno è un piacere per gli occhi, in forte contrasto con gli scenari desertici che fanno da sfondo alla mostra Falchi, gatti e coccodrilli: la fauna nell'antico Egitto, ospitata nelle sue sale fino al prossimo 14 novembre. È una mostra piccola – presenta infatti appena 110 oggetti, in prestito dal Metropolitan Museum di New York e dal Museo Egizio del Cairo – ma vale assolutamente la visita perché fornisce un interessante resoconto sul complesso rapporto che gli Egizi intrattenevano con il mondo animale.
Ad accogliere i visitatori c'è una statua della terribile Sekhmet dalla testa di leonessa, dea della guerra e delle epidemie, ma anche protettrice delle donne e dei bambini. Alle sue spalle c'è un pannello che nasconde alla vista la prima sala dell'esposizione, in modo che gli oggetti possano essere scoperti un po' per volta e non vengano svelati tutti in un colpo. Ecco allora il dio Anubis, accucciato in posizione vigile e regale, e una piccola stele in onore di Upuaut, un altro dio sciacallo particolarmente venerato ad Abido. Subito però l'attenzione viene attirata dallo splendido falco in rame rivestito d'oro, rinvenuto nei bendaggi della mummia di Pinedjem II, gran sacerdote di Amon, riportata alla luce nel 1881 Gaston Maspero ed Emile Brugsch a Deir el-Bahari, nei pressi di Tebe. La sua preziosità viene esaltata dalla teca quadrata con ampia cornice di colore grigio scuro che la custodisce, mentre l'illuminazione soffusa conferisce un'aura di mistero agli oggetti esposti nelle teche accanto.
Siamo nella prima delle tre tappe in cui si snoda il percorso espositivo, ovvero in quella dedicata al deserto, che precede le sezioni dedicate alle acque e alle terre alluvionali. I pezzi non sono disposti secondo un criterio cronologico, così vediamo oggetti dell'Antico Regno accanto ad altri di epoca romana, tuttavia la rigidità propria dell'arte egizia rende difficile ai non esperti notare differenze stilistiche. Ma torniamo al deserto, che gli Egizi chiamavano Decheret, ovvero Paese Rosso, in opposizione al Paese Nero delle terre alluvionali ai bordi del Nilo, in cui vivevano. Il deserto era considerato il paese dei defunti e gli animali che lo abitavano divennero simboli della vita dopo la morte. Un discorso a parte merita il leone, a cui erano associati i valori positivi di forza e virilità, tanto da diventare presto emblema del faraone (a cui solo riservato il privilegio della sua caccia), ma che simboleggiava anche le forze del caos, mentre la scimmia rimandava alle sfere della sessualità e della fecondità. Il ricco mondo della fauna forniva agli Egizi un vasto repertorio per rappresentare i vizi e le virtù degli uomini, come risulta evidente nelle favole moraleggianti che avevano degli animali per protagonisti; in mostra è esposto un frammento di dipinto datato alla XVIII dinastia sul quale è sopravvissuta la testa di un asino e si intravede ancora quella di un gatto nero. Proprio questi lacerti di disegni e pitture sono molto interessanti perché restituiscono raffigurazioni più fresche e “naturalistiche” degli animali, compagni di vita quotidiani degli Egizi, scampati per una volta alle rigide regole dell'arte ufficiale. Un altro aspetto da sottolineare è che sono esposti animali che non siamo soliti collegare all'antico Egitto, come per esempio rane (ce ne sono diversi esemplari eseguiti in vari materiali, tra cui il lapislazzuli), mosche, cigni e lontre, accanto ai più “tradizionali” falconi, tori, gatti e scarabei. Una nota negativa è invece costituita dalle didascalie solo in tedesco (punto debole che avevo segnalato già nella recensione della mostra dedicata a Teotihuacan), ma per fortuna viene in soccorso del visitatore non germanofono il libretto in inglese e francese gratuitamente a disposizione all'ingresso della mostra. La lettura di questa guida è caldamente consigliata perché alcuni particolari altrimenti sfuggirebbero, come il cartiglio di Tutmosis III disegnato su un piccolo pesce in steatite (a indicare che l'oggetto era un dono di o per il faraone) o le tre tacche incise su una gazzella, segno che l'oggetto era in realtà un peso (pari a tre deben, l'unità di misura egiziana) per pesare l'oro, spesso impiegato come mezzo di pagamento.
Tra i pezzi più significativi segnaliamo un coccodrillo in granito di epoca romana, in cui naturalismo e stilizzazione sono perfettamente amalgamati dalle mani dell'anonimo artista che l'ha realizzato; un agile cane slanciato nella corsa e un serpente in granodiorite raffigurante il dio Asclepio: si tratta molto probabilmente del coperchio di un grosso recipiente. Attraverso la fessura che si trova tra le sue spire i pellegrini in visita al tempio del dio della medicina deponevano le preghiere con le richieste di guarigione per sé o per i propri parenti malati. Quello che a prima vista sembra un gambaletto è invece la mummia di un gatto. Dalla guida si apprende che in alcune città, dove il culto del felino domestico era particolarmente sentito, esistevano veri e propri cimiteri in cui venivano depositate le mummie di questi animali, per esempio a Bubastis e a Saqqara. Le analisi condotte in laboratorio hanno però dimostrato che spesso queste mummie contenevano “frattaglie” di diversi animali. Quella in mostra, però, contiene davvero un micio! A sigillo dell'esposizione gli organizzatori hanno collocato un cippo con una stele di epoca tolemaica sulla quale i geroglifici descrivono formule magiche per proteggerei i fedeli da serpenti e scorpioni, pericolo quotidiano anche in epoca tolemaica, quando fu realizzato. Il catalogo a corredo è riccamente illustrato, nonostante sia molto snello (poco più di 100 pagine); purtroppo però è disponibile soltanto in tedesco.

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